lido di ostia

Per quest’anno non cambiare…

Anni ’60, il mare era Ostia. Una domenica al mare di una famiglia di Roma. Figure di una società che sembra così lontana ma dove si immergono le nostre radici.

Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare…

Ci si alzava presto la domenica mattina, per non trovare traffico, la Via del Mare dopo le otto diventava impraticabile e la fila di macchine per andare a Ostia iniziava già all’altezza di Casalpalocco. Quindi, sveglia alle sei, con l’odore del caffè che arrivava dalla cucina e l’eccitazione di una giornata speciale.

La sera prima avevo preparato le canne da pesca con Nonno, insomma… diciamo che io avevo aiutato Nonno a fare le lenze. Gli ami, il filo i galleggianti di sughero rossi e bianchi, le canne da pesca, che allora erano di bambù. Io avevo la mia canna piccola fatta di tre pezzi che si innestavano uno sull’altro, pesava un po’, ma nulla a che vedere con la canna che usava nonno per pescare i cefali, lunga e pesante tanto che io non riuscivo neanche a tenerla in mano. Poi facevamo la pasta per pescare i cefali, fatta con pane e pecorino, che le mani poi puzzavano per tre giorni.

Mamma e Nonna si erano alzate prima per preparare il cosiddetto pranzo al sacco, che consisteva in una teglia gigante di pomodori con il riso, zucchine ripiene e patate. Poi avevano preparato la sporta con due termos di caffè, un fiasco di vino, pane, acqua e due mazzi di carte da gioco. Papà e Nonno intanto erano scesi in strada a preparare l’automobile, una Fiat 600 bianca, nuova di zecca, con un bel portapacchi capiente sopra il tetto. Sopra l’automobile veniva costruita una piramide di oggetti “indispensabili” per una giornata al mare: Ombrellone, sdraio, tavolino con quattro sedie, canne da pesca, bilancia per pescare etc…

Al momento di caricare l’automobile si celebrava sempre lo psicodramma tragicomico, con copione prestabilito, durante il quale Papà si arrabbiava perché c’era troppa roba, Mamma diceva: “però se poi manca qualcosa rompi”, Nonna che rimproverava Nonno (questo lo faceva a prescindere) e noi fermi sul marciapiede con salvagente, secchiello con paletta e cappellino per il sole, d’ordinanza. Dopo il carico delle vettovaglie e delle dotazioni da spiaggia, pregiatissima opera d’ingegneria dell’incastro, si procedeva al non meno complicato carico della famiglia. Nonna e Mamma sul sedile posteriore con in braccio me e mia sorella (la terza non era ancora nata, se no sarebbe stato necessario un diverso incastro, non so se avete presente il gioco del quindici…), sotto le gambe le borse con gli asciugamani e i costumi di ricambio. Papà guidava e Nonno, sul posto davanti, con in braccio le borse con il pranzo e sotto le gambe un contenitore ipermoderno con le posate, i bicchieri e i piatti di plastica, orgoglio di Papà. Con una futura evoluzione trovò posto sopra l’auto anche una tanica con rubinetto da 10 litri di acqua potabile che, appesa a testa in giù a un albero, avrebbe fornito acqua corrente alla bisogna.

Con la macchina così stipata si partiva finalmente alla volta di Ostia. Lungo la Via del Mare incontravamo altri temerari come noi che davano prova di italico ingegno nello stipare di materia umana la vettura e realizzavano sul tetto di essa delle ardite costruzioni, meritevoli di laurea ad honorem in architettura. I più audaci andavano in Vespa 250, padre sulla parte anteriore del sellino, madre seduta “all’amazzone” su quello posteriore, sulle gambe il necessario per la spiaggia, figlio/a davanti al padre, in piedi abbracciato all’ombrellone, ovviamente chiuso e diviso in due pezzi, l’ombrellone non il figlio. Le sinusiti erano in dotazione con la Vespa. Anche se ora sembra una cosa assurda, verremmo tutti arrestati e ritirata la patente ad libitum, ho in testa un’immagine romantica e suggestiva di quegli audaci. Quelle famiglie del dopoguerra, in cerca di un angolo di felicità. Quei padri alla guida di un mezzo, comprato con tanti sacrifici, che attestava i cammino verso il benessere. Quelle mamme, con le gonne lunghe sotto al ginocchio e il foulard sui capelli che sventolavano come bandiere, abbracciate al proprio uomo con il quale stavano cercando di costruire un futuro migliore. Qualcuno dirà che è un’immagine stereotipata e borghese, forse, può essere, ma io provo tanta tenerezza e rispetto nei loro confronti perché comunque avevano un sogno.

Ma bando ai romanticismi e torniamo sulla Via del Mare. Arrivati all’altezza di Casal Palocco, a qualsiasi ora si arrivasse, iniziava la fila. Fermi, sotto il sole estivo, le persone uscivano dalle macchine incolonnate per sgranchirsi le gambe o fumarsi una sigaretta. Specialmente a fine luglio o nel mese di agosto la temperatura non aveva nulla da invidiare a Tripoli. Tenete in conto che allora le automobili non avevano il benché minimo sistema di condizionamento, l’unico sollievo veniva dal finestrino aperto che, in caso di sosta, perdeva la sua efficacia. Il surriscaldamento e la sudorazione ascellare provocavano, generalmente tra gli uomini, un progressivo spogliarello che metteva in mostra delle “mise” imbarazzanti, con la immancabile canottiera bianca, o color avorio. Il massimo si otteneva con un fazzoletto bianco al quale erano stati annodati i quattro capi, posto come copricapo. I più abbienti e alla moda proponevano invece un bel cappello di paglia. A proposito di cappelli, noi ragazzini avevamo tutti un immancabile cappellino bianco alla marinaretta, che guai a toglierselo, il colpo di sole era il pericolo incombente, secondo solo alla congestione postprandiale, ma di questo vi racconto dopo.

Una volta mentre eravamo in fila si affiancò a noi una Fiat 850 berlina, color sabbia. La piramide sulla macchina superava la nostra di almeno un metro, ma la vera sorpresa fu quando da quella automobile, più o meno della capienza della nostra, uscirono otto persone, tutti adulti. Veri professionisti della contorsione e maestri di compattamento, ebbero tutta la nostra ammirazione. Finalmente, dopo decine di minuti interminabili, si ripartiva per rifermarsi dopo qualche chilometro. Dopo un po’, questo “stop and go” cominciava a fare le prime vittime. Vetture con il cofano aperto e motore fumante, l’acqua nel radiatore che bolliva, specialmente le Fiat 600 e le 850, che avevano il motore dietro, richiedevano frequenti “rabbocchi” di acqua del radiatore. Non c’era automobilista previdente che non avesse una tanichetta da cinque litri di acqua in macchina. In fine, dopo un paio di ore di questo supplizio si arrivava in vista del mare. Ancora mi ricordo l’ultimo dosso, lo vedevi apparire piano, piano, sulla linea dell’orizzonte, una striscia blu intenso, alcune palme, praticamente un’oasi dopo il deserto.

Arrivati sul piazzale di Ostia cominciavamo a costeggiare il lungo mare dove erano gli stabilimenti. A me sarebbe proprio piaciuto andare allo stabilimento, c’erano le cabine dove ti cambiavi il costume senza vergognarti, e poi ci potevi giocare a nascondino. C’era la pedana di legno per arrivare vicini all’acqua e non ti scottavi i piedi, il chiosco con le grattachecche (oggi si chiamano granite ndr), insomma tante belle comodità ma si sa, la vita è fatta per soffrire, se no non ti diverti e noi abbracciavamo in pieno questa vocazione. Il motivo per cui non ci andavamo non era economico, era che a noi piaceva fare “l’accampamento”, essere liberi e autonomi, cose che ho apprezzato da adulto, ma da ragazzino mi sfuggiva l’essenza di quel pensiero. Le rare volte che ci venne concesso di andare allo stabilimento, per noi piccoli fu una vera festa, forse meglio così, la apprezzammo di più.

Dopo alcuni chilometri di lungomare, passata la località “Stella Azzurra”, arrivammo finalmente alla spiaggia del “Presidente”. Era chiamata così perché prima faceva parte della tenuta del Presidente della Repubblica di Castel Porziano.

Si parcheggiava in un largo spazio ricavato tra le dune sotto delle tettoie coperte di canne. Poi ci caricavamo tutte le vettovaglie e tutta la dotazione marittima e, in fila indiana si cominciava la marcia forzata fino alla spiaggia. Quel tragitto era per me il momento più difficile della giornata. La sabbia rovente si infilava nei sandali, quelli blu con gli occhioni per capirci, carichi di cose, sembrava non finire mai. In realtà erano un centinaio di metri, ma io ero piccolo e tutto sembrava più grande. In più bisogna tener conto che la sabbia del lungomare laziale e molto ricca di ferro, per questo è così scura, e si arroventa in modo esagerato. Giusti sulla spiaggia si allestiva l’accampamento a dovuta distanza dagli altri. Questo era possibile solo all’inizio della stagione balneare, dopo no. Si stava attaccati in quattro metri quadri condividendo musica, rumori e odori. Piantare l’ombrellone è un’azione simbolica di presa di possesso, ci si sente come Cristoforo Colombo che conficca l’asta della bandiera di Spagna dopo lo sbarco e prende possesso per il re della terra conquistata. A questo punto tu pensavi: “finalmente mi spoglio e posso giocare nell’acqua” e invece no! Non era ancora arrivato il momento. “Non ti togliere la maglietta che ti scotti”, “aspetta che prima ti devo mettere la crema”, e dopo la che ti avevano unto come un porcello: “non entrare subito in acqua che si toglie la crema”, insomma non era mai il momento.

Guai poi a mangiare qualcosa prima di aver fatto il bagno. Pure se avevi mangiato solo un biscotto dovevano passare tre ore prima di poter mettere un piede nell’acqua. Secondo me gli adulti avevano un gusto sadico nell’applicare delle regole in maniera esagerata e autoflaggellante, specialmente Nonna, o almeno così pensavo allora. Superate le prove di resistenza e di pazienza finalmente ci si poteva buttare in acqua. Allora partiva un’altra salva di raccomandazioni: “non ti allontanare”, “non andare dove non si tocca”, “stai attento a tua sorella”, “attento alla tracine”. La Tracina, il terrore del bagnante della costa Laziale. I piccoli di questo pesce vivono sotto costa nei fondali sabbiosi. Hanno l’abitudine di “insabbiarsi” per non farsi vedere, lasciando fuori solo un aculeo della pinna dorsale che contiene veleno. Questo mostro di pochi centimetri miete vittime tutte le estati e non raramente vedevi uscire qualcuno dall’acqua, urlante per il dolore e saltando un piede solo accasciarsi sulla riva, subito dopo l’immancabile frase di nonna: ”Hai visto?! Lo ha punto una tracina, che ti dice sempre nonna?!”

Dopo il bagno dovevamo recuperare le energie spese e Mamma tirava fuori la seconda colazione della giornata che consisteva in pizza, prosciutto e fichi o pizza bianca con la mortadella, due cose divine che giustificavano tutti i sacrifici fatti.

La spiaggia libera era territorio prescelto di figure mitologiche, che sono state anche oggetto di tanti film ispirati a quegli anni, dei veri artisti del folklore e della truffa. Tra i più titolati e più frequenti: il Cocomeraro, il Tellinaro e Cocco Bello. Il Cocomeraro aveva un carrettino semovente, si piazzava proprio tra il parcheggio e la spiaggia, con una piramide di angurie ed esibendo fette di cocomero tenute sopra al ghiaccio. La cerimonia era sempre la stessa, ci si avvicinava al carretto e: ”Ma è maturo ‘sto cocomero?”- “è uno zucchero signo’ “, “le dispiace fare un tassello” – “va be’ ma basta che poi lo compra”, “dipende, se è buono lo prendo se è una rapa se lo mangia lei” – “hee, come la fa difficile”. In genere era buono, e noi facevamo a gara a chi sputava i semi più lontano. Il Tellinaro invece era un ometto scalzo, di chiara origine partenopea, maglietta a strisce bianca e blu d’ordinanza, calzoni rimboccati al ginocchio, e camminava scalzo lungo la battigia, con due secchi, uno pieno di telline e l’altro con l’acqua di mare, gridando “telline, telline, teeee”. “Accattateve e telline signò”. E queste qualche volta Papà le comprava e noi ce le mangiavamo crude, insieme alla sabbia di cui erano piene. Aveva una bilancia di metallo, di quelle con il contrappeso, la “pesata” veniva fatta a una velocità tale che non avevi neanche il tempo di guardare che già aveva tolto tutto, si andava a fiducia. Quando si dice il mestiere! E in ultimo Cocco Bello. Il nome dell’artista in questione era dovuto al richiamo che lanciava: “Cocco bello, cocco, cocco fresco , cocco!” Ti vendeva dei pezzetti di cocco a cifre esorbitanti. E’ inutile dire che i miei rifuggevano in modo assoluto l’interazione con questi personaggi e solo rare volte cedevano alle nostre insistenze comprandoci un pezzetto di cocco che spesso finiva nella sabbia, lo sciacquavi nell’acqua di mare e te lo mangiavi salato. Come non ci è presa la salmonella, il tifo o il colera in quegli anni, proprio non lo so. Forse sarà per la mitica “Santa Pupa” che a detta dei romani e la protettrice dei bambini un po’ discoli.

Giunta l’ora di pranzo dovevamo attrezzarci per consumare il “frugale” pasto. Ai miei non piaceva mangiare in spiaggia, troppo caldo, poca ombra e la sabbia che si infilava dappertutto e poi la sentivi scrocchiare sotto i denti. Quindi ripigliavamo “baracca e burattini” e tornavamo in macchina per trasferirci sotto la pineta di Castel Fusano. Devo dire che apprezzavo molto questo programma, perché la pineta si poteva esplorare, potevo catturare gli scarabei della sabbia per fargli fare le corse, costruire capanne e pescare con Nonno lungo il Canale dei Pescatori che costeggia la pineta. Trasferito l’accampamento sotto la pineta si allestiva il pranzo che in genere consisteva in pomodori ripieni di riso, con le patate al forno e le zucchine ripiene, frutta, caffè e ammazzacaffè (solo per i grandi). Dato che il tavolino da campeggio aveva in dotazione solo quattro sedie, Nonno e Papà smontavano i sedili anteriori della 600 e li usavano come poltrone. Dopo il “frugale”pranzo gli adulti facevano la pennichella all’ombra dei pini e noi approfittavamo, di quegli istanti di relativa libertà, per giocare agli esploratori e costruire una capanna con rami e frasche. Poi Nonno si alzava, prendeva le canne da pesca o la bilancia, mi faceva un cenno complice con la testa e andavamo a pescare, mia sorella no, perché era piccola e femmina, e le femmine non pescano, almeno così pensavo allora.

Verso le sei del pomeriggio cominciavamo a sbaraccare, era sempre un momento triste per me e mia sorella. Si rimetteva tutto in macchina, si ricostruiva la piramide sul tetto e via ad affrontare le due ore necessarie a tornare a casa, con il traffico al contrario ma senza l’ansia di raggiungere la meta. Noi piccoli, quasi sempre, ci addormentavamo, cotti dal sole e stanchi della vita all’aria aperta. Una volta a casa, bagnetto nella vasca a semicupio del bagno piccolo, latte con i biscotti, vedevamo “Carosello” e a letto presto, perché il giorno dopo dovevamo andare a scuola. Aveva ragione Leopardi, la domenica sera è il momento più brutto della settimana, specialmente se il giorno dopo devi andare a scuola.

Era un’altra Italia, fatta di gente più semplice, forse più provinciale, ma più vera che cercava la felicità nelle piccole cose.

Mi viene in mente una frase di Jim Morrison: “Fai attenzione alle piccole cose, perché un giorno ti volterai e capirai che erano grandi”

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