Messaggio in bottiglia n°14 – Il Gorilla

Lo so che il Giardino Zoologico, o chiamatelo Bioparco se volete, è un retaggio di secoli passati, durante i quali per vedere un animale esotico, se non si era straricchi o esploratori, esisteva solo questo mezzo, ma i ricordi delle visite fatte la domenica mattina con i miei genitori sono ancora vivi e l’entusiasmo per vedere le tigri e i leoni o dare le noccioline a scimmie e giraffe ancora me lo ricordo bene.

Tutte cose sbagliate, per carità, mai dare da mangiare agli animali! Momenti però, che facevano viaggiare la fantasia del bambino che ero in luoghi esotici e lontani. Confesso che quello è un dei luoghi della mia infanzia che ancora mi provoca un’emozione e mi viene spesso la voglia di tornarci.

È stato così che, alcuni anni fa, in una mattina d’autunno in cui ero particolarmente perso sui miei arrovellamenti nel cercare un senso a quello che faccio, decido di andare a fare due passi al Giardino Zoologico di Roma … Bioparco, lo so ma, scusatemi, per me rimane sempre con questo nome.

Già quando arrivi il suo ingresso monumentale, disegnato dall’architetto Armando Brasini, ti colpisce e cattura la fantasia con le teste d’elefante sui varchi d’accesso e i due leoni ruggenti sul cancello principale. Sarà stato per le letture dei libri di Emilio Salgari, di cui da ragazzo facevo indigestione, ma a me sembrava di entrare in un luogo magico dove potevo trovare Kammamuri e Tremal-naik, o imbattermi nella tigre Darma.

Da adulto, ovviamente, non mi fece lo stesso effetto, anche se provavo un senso di gioia e una leggera eccitazione, mi sembrava di respirare l’aria delle domeniche mattina.

Cominciai il solito giro, entrando sulla sinistra, dove sono le proscimmie, la fossa con i babbuini e poi i primati. Le gabbie avevano tutte due parti, una interna, coperta, che separava i visitatori con uno spesso vetro, e una esterna recintata da sbarre. Due scimpanzé giocavano con un’altalena fatta con i pneumatici, e si inseguivano nella gabbia all’esterno. Quella dei gorilla vista da fuori sembrava vuota e così entrai nell’edificio dove affacciavano gli spazi interni.

 

Un maschio di gorilla stava appollaiato su di un ripiano in alto, e guardava fuori dalla finestra che dava sul lato esterno della gabbia. Aveva le gambe e le braccia raccolte e con la mano destra si sorreggeva il mento, avete presente la statua del Pensatore di Auguste Rodin? Era assorto nei suoi pensieri e ogni tanto scuoteva la testa. Se al suo posto ci fosse stato un uomo, a cui era stata tolta la libertà non mi sarei stupito di vederlo nello stesso atteggiamento, a questo pensai. Già un senso di disagio si stava facendo strada in me quando, il gorilla voltò la testa e mi guardò fisso negli occhi.

Per un attimo mi sentii come il ragazzo del libro “L’occhio del Lupo” di Daniel Pennac. Non sapevo se quel gorilla fosse nato in cattività o fosse stato salvato da qualche bracconiere che l’aveva strappato da cucciolo al suo branco, ma immaginai la sua vita la sui Monti Virunga, pensai ai gorilla che vengono uccisi per fare dei portacenere con le loro mani, pensai allo scempio che facciamo di questa terra e dei suoi abitanti, uomini o animali che siano. Dall’Amazzonia ai Paesi africani, li priviamo della libertà e distruggiamo il loro ambiente per sfruttarlo in nome del dio denaro, uomini o animali che siano, non facciamo distinzione. Rimase a fissarmi negli occhi e faticai a reggere il suo sguardo, mi sentivo giudicato. Provavo un senso di colpa e di impotenza al tempo stesso e mi veniva da dirgli: “Ma io sono diverso, non sono come loro! Io non sopporto queste ingiustizie, do anche i soldi al WWF e ad Amnesty International e poi faccio la differenziata!”

Ma sono veramente diverso da loro o lavo solo la mia coscienza con questo piccolo obolo? Quanto io, “uomo occidentale evoluto”, mi oppongo a questo sistema del consumo a oltranza, dei bisogni indotti, dello sfruttamento di uomini, animali e piante perché più deboli e perché non possono reagire? A quanto dovrei rinunciare per essere coerente? E poi, serve fare sacrifici ed essere coerente se sono solo io a farli? Ecco trovata la scappatoia… “Io lo farei pure, ma gli altri…”

E così continuiamo fino a che qualcosa più grande noi, forse, ci fermerà.

Gli dissi: “Ciao Gorilla, mi dispiace, ma non posso farci nulla” e me ne andai voltandogli le spalle e rimettendomi in tasca i miei sensi di colpa. Per dirla con le parole di Friedrich Wilhelm Nietzsche:

“Al nostro istinto più forte, al tiranno che è in noi, non si sottomette solo la nostra ragionevolezza, ma anche la nostra coscienza.”

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